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03 gennaio 2013

l'Atlante delle Nuvole



Sei storie, sei protagonisti diversissimi tra loro, sei momenti storici differenti, sei luoghi distantissimi. 
E un unico filo conduttore.
«E allora, che effetto fa?». Questa è la classica domanda ricorrente che ti senti fare, quando il tuo libro arriva alla fine della lunga ascensione dal purgatorio della produzione ai multisala. Per prima cosa senti l’impatto fisico che provoca vedere e sentire le tue parole che prendono corpo. Davanti ai tuoi occhi, gli attori pronunciano un dialogo che hai scritto nella tua camera anni prima, e tutti quegli esseri della non esistenza diventano reali. Trovano lampi di ironia o di minaccia che non hai previsto e presto sparisce ogni ricordo di come hai immaginato il personaggio, prima che l’attore si mettesse nei suoi panni. Per un drammaturgo o uno sceneggiatore questo WOW ontologico è pratica di tutti i giorni, ma a me il ricordo della prima lettura della sceneggiatura fatta dal cast resterà impresso per sempre.
Tre o quattro attori non potevano esserci, e i tre registi del film – Tom Tykwer, Lana e Andy Wachowski, anche autori della sceneggiatura – dovevano riassegnare i ruoli mancanti: mi è sembrato scortese non offrirmi volontario. Non partecipavo a una lettura di gruppo dalle lezioni di inglese al liceo, ma invece dei miei compagni diciassettenni che arrancavano sulle pagine di Passaggio in India, questa volta c’erano niente meno che Mr Hanks, Miss Berry, Mr Grant e Mr Broadbent. E leggevano parole platealmente familiari. Nell’insieme sembrava come un sogno in cui trovi Gandhi che gioca a Forza quattro con l’idraulico nello sgabuzzino del sottoscala: non erano i singoli elementi della scena a essere surreali, ma piuttosto la loro giustapposizione. 
Alla fine però elabori il fatto che ti sei trasformato: non sei più il Creatore monoteistico del tuo libro, ma il tipo che, en passant, ha scritto il romanzo originale. Come la prendi, dipende, immagino, da come prendi l’adattamento. Mano sul cuore: giuro che non ho mai provato troppa ansia da questo punto di vista. Ho incontrato i tre registi nel 2008: il loro stile e le loro idee mi hanno rassicurato: ero in mani capaci. Il loro progetto di mettere in primo piano il tema delle anime migranti, con attori che interpretano diversi ruoli (ogni ruolo è una specie di stazione in questo viaggio karmico dell’anima) mi è sembrato ingegnoso.
Certi cambiamenti nella trama e nei personaggi erano inevitabili: così i sei mondi del libro si sarebbero potuti modellare in un contenitore a forma di film: l’amore tra lo Zachary (ormai) maturo e Meronym nelle Hawaii postapocalittiche per esempio, o l’epilogo di Cavendish che compare nel film ma non nel libro. Peraltro la struttura a matrioska del libro è diventata piuttosto a mosaico: non puoi chiedere a uno spettatore di iniziare un film per la sesta volta dopo cento minuti, e sperare che non ti tiri il popcorn.
Capivo che ogni qual volta la sceneggiatura si staccava dal romanzo era per sane ragioni narrative che mi lasciavano più impressionato che irritato. (Durante la lettura sono stato seduto accanto a Lana Wachowski e quando una battuta mi sembrava particolarmente forte, le sussurravo: «Questa è tua o mia?» Il risultato era 50/50, direi). Comunque l’adattamento di un romanzo può essere un disastro non per troppa infedeltà, ma anzi per troppa fedeltà: perché fare tutti quegli sforzi per produrre un audiolibro con le figure? 
La produzione! Una settimana sul set a Berlino nel dicembre 2011 mi ha dato accesso a un mondo di cui avevo sentito spesso parlare, ma che non avevo mai visto da vicino. Guarda: c’è un’unità di riciclaggio cloni dove non c’era niente un’ora fa. Attento, è in arrivo una montagna di fibre ottiche. Cosa? Le porte scorrevoli nei film di fantascienza sono fatte di compensato? Mettere il naso nel lavoro degli altri è un’abitudine da scrittore che cerco di coltivare. Così ho riempito una Moleskine di interviste ufficiose con una serie di professionisti che incontro di rado, se non mai, nella mia vita semisolitaria di romanziere: insegnanti di dizione, editor di sceneggiature, costumisti e scenografi, esperti di computer animation, avvocati dello spettacolo, addetti al catering, comparse, un designer di macchine futuristiche, stuntmen e revisori dei conti che tengono d’occhio le cascate del Niagara finanziarie generate da ogni film in piena produzione.
È molto cresciuto anche il mio rispetto per gli attori: non c’era niente di artificiale nella scena in cui la sempre splendida Halle Berry rimaneva immersa nell’acqua fino al collo (per la seconda ripresa quel pomeriggio); e David Gyasi, che recita la parte di un moriori dell’Ottocento, mi ha aiutato a decifrare l’accento che avevo in mente quando scrivevo il personaggio, passando con grazia da un perfetto accento maori, al caraibico e all’africano, con la semplicità di un uomo che cambia cappello. Grazie a un mio piccolo cameo ho imparato anche quante ore si passano sul set per ogni minuto sullo schermo. Non c’è da stupirsi che alcuni attori diventino lettori voraci. 
Durante le riprese i registi sono spesso paragonati a generali durante la guerra, ma non sono sicuro che la metafora renda loro del tutto giustizia. Il regista non è solo uno stratega: deve essere drammaturgo e montatore; deve tenere alto il morale e distribuire calci nel sedere; deve essere cameraman e tecnico del suono, diplomatico ed economista; e (idealmente) artista del massimo calibro. Ha anche bisogno di una tonnellata di resistenza fisica e mentale: durante la produzione, per sedici o diciassette ore al giorno viene bombardato da centinaia e centinaia di domande. Seguire da vicino i Wachowski e Tom Tykwer per qualche giorno mi ha incoraggiato a cercare somiglianze e differenze tra la mia dipendenza dalla scrittura e l’impresa relativamente enorme di fare un film.
Forse quando il testo scivola verso l’ambiguità, il film tende a essere specifico. (Agli studenti di scrittura creativa s’insegna spesso a «mostrare e non dire», ma la verità è che le parole possono solo dire: ecco perché non sono immagini). Forse un romanzo contiene tante versioni di sé quanti sono i lettori, laddove il final cut di un film fa evaporare ogni altro possibile modo di realizzarlo, almeno fino a un remake o a un director’s cut. Ma se una scena scritta può contenere una serie limitata di dettagli, ogni minimo aspetto di quella filmata – luce, suono, oggetti – può e deve essere preso in considerazione.
E se uno scrittore ha solo mezzi goffi per dire esattamente come una certa frase deve suonare nella testa del lettore (corsivo e avverbi), un regista deve trovare il tono perfetto di quella frase e mantenerlo per tutto il tempo della ripresa. Il cinema dietro le quinte è un mondo straordinario, come lo è sullo schermo. Qualunque sia il destino commerciale del film sarò sempre grato a Cloud Atlas – L’atlante delle nuvole e ai suoi tre registi per avermi garantito un visto temporaneo per questo mondo.
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